A Chenjiagou il viaggio “inizia” dopo una settimana, ti entra nel corpo e nella mente dopo una certa quantità di giorni, perché il tempo scorre lento.

Ci sembra ormai di conoscere e immaginare le routines sociali di questo villaggio, le facce della gente, dei vicini, dei negozianti, i sapori e gli odori del cibo che ci offrono qui a scuola, le verdure e le pannocchie di mais stese sull’asfalto come per segnare le azioni quotidiane di chi lavora la terra e si sostiene con essa. Solo con essa. Gruppi di persone, anziani, bambini, donne, pronti a sistemare il raccolto in strada, sperando che qualche mezzo non ci finisca sopra durante un’azzardata manovra di sorpasso.

Una birra costa meno di un euro, e lo stesso vale per un pacco di sigarette. Il danaro per una telefonata all’estero sembra un investimento in rapporto agli yuen (la moneta nazionale) che la donna del negozio può guadagnare in un giorno netto. Camioncini a tre ruote e motorini elettrici dal design indiscutibilmente diverso (e per noi occidentali “abbastanza brutto”), raramente qualche automobile, un paio di taxi nuovi di zecca al giorno, un pulmino che sembra non passare mai alla stessa ora (chissà se un giorno ci saliremo su per fare un giro). Trattori senza carretto o con carretto pieno di raccolto e a volte pieno di persone, accovacciate sopra per farsi riportare a casa dopo una giornata passata nei campi di cotone, chissà, o in quelli di mais (è la stagione). Biciclette, tante, sì ma non troppe come immaginavamo una volta: adesso si va in giro con motorini attrezzati con ceste anteriori e carrettini per trasportare merce.

Tutta questa vita, con le sue sfumature, scorre su un’unica strada, quella principale che va verso due direzioni, di cui una sappiamo dove porta perché è quella dalla quale siamo arrivati, e l’altra non sappiamo dove porta perché la sera si perde gradualmente nella non-luce, nel grigiore costante color ghisa, un grigiore che poi diventa buio pesto fino alla prossima alba, quella che spunta verso le 5.30 e che già alle 6 spinge in strada l’uomo con la bici e uno strano megafono, per intonare una strana e per noi intraducibile, ripetitiva nenia al fine di vendere qualcosa (presumibilmente del cibo che potrebbe servire per il primo pasto della giornata). Questo è il primo suono che sentiamo al mattino. La sera, invece, i versi dei gechi o delle cicale ci predispongono alla notte, augurandoci ritmicamente un buono e meritato riposo.

La fatica è tanta, infatti, e di riposo c’è bisogno. Ci fermiamo due ore dopo i pasti e poi riprendiamo l’allenamento. Alle volte ci concediamo una passeggiata nel villaggio, anche se il Maestro non passeggia più con noi perché è partito per andare a Taiwan a “seminare” ancora, indiscutibilmente, taiji. Ieri abbiamo approfittato di quella che finora è stata l’unica vera giornata di sole: finito l’allenamento, alle 17.30 siamo usciti per visitare l’area dove gli antichi maestri praticavano il taiji, eseguivano forme e tiravano il respiro fino all’ultimo fajin. Quest’area si trova lungo un fiumiciattolo che in realtà in questa stagione è una zona praticamente paludosa, ed è subito dopo una delle porte del villaggio, quella che non si erge sulla strada principale, l’unica asfaltata. Vi si accede da una scaletta alla destra della porta, la quale crea un dislivello di qualche metro fino a immergersi nel sentiero tracciato con mattoni e costeggiato da alberi che creano un’atmosfera di intimità, seppur infestata da zanzare e dominata dall’umidità.

 

A ridosso della stessa area che abbiamo immortalato in tante fotografie, da una strada infangata e da un mucchio di case abbastanza umili sono spuntati fuori dei bambini e delle bambine entusiasti alla vista di noi stranieri, giunti da chissà quale dove per il taiji. Le nostre macchine fotografiche, a quel punto, hanno iniziato a surriscaldarsi di click, catturando visi, sorrisi, saltelli, pose da taiji che questi piccoli abitanti di Chenjiagou tenevano per noi. Ci hanno seguiti quasi tutti fino alla scuola, inseguendo e invadendo con gioia le nostre foto (o quelle che speravamo di scattare) e la più temeraria, una ragazzina vivacissima e spavalda, è arrivata fin sotto il nostro portone, con l’intento di farsi fotografare davanti alla scultura, una grande pietra dorata con ideogrammi, collocata davanti alla nostra scuola. Scattata la foto, non abbiamo potuto far altro che confermare a noi stessi che il viaggio è appena iniziato.

Oltre dieci giorni pieni di pratica ci aspettano ancora: tornare in Italia sotto l’insistenza dell’autunno servirà forse a farci ricordare che l’unica cosa in comune con Chenjiagou sarà il colore del cielo e la voglia di continuare a curare la nostra energia interiore, il nostro “qi”.